Sesso, socialità, solipsismo

Il sospetto è... che non sappiamo più stare insieme. Metti la dirompente cascata tecnologica, aggiungi il lavaggio del cervello televisivo e l'ostentazione di modelli devianti (leggi interpreti dei talkshow), la mancanza di "figure narranti" all'interno del nucleo familiare e l'illusione di ubiquità, senza dimenticare la sfinente spinta alla competizione su tutto, sempre e comunque...

Ecco, quindi, che una serata con amici, in cui c'è quello che suona la chitarra, diventa uno straziante teatrino in cui il malcapitato, o lo sborone, a seconda del caso specifico, mettendosi al centro dell'attenzione, si attira le ire degli "amici", mentre essi, ahimè, non sono in grado di reggere il confronto. "Ma io volevo solo suonare...".

E i brunch informali con gente nuova? Che gioia! Che tripudio di socialità! "Ma che fai, non controlli le notifiche di Whatsapp?!". Insomma, l'impressione è che stare insieme sia diventato difficile, scomodo, fastidioso, pericoloso. E questo fino al punto che l'emergenza pandemica non ci ha messo poi molto a dare un taglio netto alla socialità: "distanziamento sociale" lo hanno chiamato. Ma che roba è?

È evidentemente un modo per individuare un qualcosa che è  troppo astratto da poter normare. Può però anche essere la spia della spersonalizzazione del fenomeno e della sua etichettatura. Adesso poi che siamo andati un po' in avanti con le cose, addì 29 gennaio 2022, nel momento in cui scrivo, non sono rimaste più solo le Cassandre della prima ora a parlare di "pericolosi paralleli della realtà con conclamate distopie orwelliane e huxleyane". Ebbene notiamo, nell'ultimamente stracitato 1984, che fenomeno di una certa rilevanza di quella società era la distruzione del sesso e del legame uomo donna come momento di intimità, di scambio fisico ed emotivo.

Anche questa è probabilmente una cartina di tornasole per la socialità/socievolezza, vivere comune, feriti e traditi dalla contemporaneità. Difficile, ovviamente, indagare in questa sede – e in generale, data la delicatezza dell'argomento – sull'effettivo decadimento della genuinità dell'atto sessuale, ma il modo in cui giovani e meno giovani si riferiscono ad esso, può in qualche modo essere un tratto di prim'ordine della questione.

La volgarità diffusa in ambienti lontani dai riflettori fa il paio con l'ostentazione becera di forme e di corpi che la tv perpetua, foriera di quell'orgy porgy alla Huxley, che è azione meccanica e, tutto sommato, svuotata di senso.

Non c'è da stupirsi più di tanto perché, se non sappiamo più stare insieme, avere scambi sessuali intimi e pregni non può che essere un'utopia. Ma che vuol dire stare insieme? Stare insieme vuol dire tante cose. Confrontarsi, imparare l'uno dall'altro, litigare per poi ricostruire: in definitiva, creare un senso condiviso.

Dall'abuso di alcol e di sostanze, che ci allontanano dall'hic et nunc, all'inquinamento degli scambi sociali con tonnellate di ipocrisia, non ci può essere uno stare insieme, se non vi è presenza e interesse nel momento condiviso. È il momento in cui ci troviamo attorno a un tavolo, di fronte a una tavola da gioco, raccolti in una sala musicale, liberi di passeggiare insieme per viali alberati o per i corsi principali delle città post-industriali.

Stare insieme è anche preoccuparsi degli altri, delle loro esigenze e, soprattutto, della loro onorabilità o, più semplicemente, della loro rispettabilità. Ecco quindi che lo sfottò continuo, la demolizione della rispettabilità di chi sta al nostro fianco – o perlomeno il tentativo – lo schernire chiunque, per dimostrare forza e sicurezza, non dovrebbero essere inquadrate come le imprescindibili caratteristiche del maschio alpha, ma come un semplice tratto svilente di un'evoluzione mancata.

Ancora una volta cattiva maestra è la televisione, dove presunti "rispettabili" ridacchiano e scherniscono chi non la pensa come loro, mentre quest'ultimi provano a concludere il proprio intervento. Ed è subito bar.

Lo stare insieme richiede anche una certa capacità di concentrazione, la regolazione dei turni di parola, la capacità di ascoltare e comprendere i propri interlocutori. Tralasciando le teorie scientifiche, che ci spiegano come stiamo diventando sempre meno intelligenti, riferendoci al "genere umano", non possiamo non notare quanto vi sia un legame con l'impoverimento scolastico – inteso come impoverimento della scuola come agenzia primaria.

"Classi pollaio, scuola parcheggio, insegnanti frustrati" sono una triade infallibile per la demolizione del luogo dello "stare insieme", forse per eccellenza. Se è vero che la scuola ha sempre formato "buoni operai", è pur vero che dalla scuola alla fabbrica, si registrata la formazione e l'evoluzione di un corpo sociale, capace di dire la propria, di autoregolarsi e di confrontarsi per la circolazione di uno o più pensieri che formano un ribollente magma creatore.

Oggi no.

Oggi non vi è spazio per il confronto e l'unico tratto dello stare insieme sembra quello della dialettica "guardia prigioniero". Il prigioniero spera di scontare velocemente la sua pena e di sfuggire al dominio della guardia, per farlo non si confronta, rimane in silenzio, "attacca l'asino dove vuole il padrone", segue il verbo comune. La guardia non ha un'opinione, ripete da sempre ciò che è imposto dall'alto e questo le dà potere. La guardia non si preoccupa che di una cosa: "che il prigioniero non dissenta".

In molti altri contesti la dialettica guardia prigioniero si ripete. Oltre a quello scolastico, mi viene in mente quello della "pacifica uscita fra amici". Non si tratta però, solo dell'irreggimentarsi di una società fondamentalmente sempre più fascistoide, ma dell'incapacità propria dello stare insieme, del ragionare, del condividere idee, di ascoltare quelle altrui, di fare del buon sesso e di bere del buon vino.

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Sergio Procacci

Laureato in Scienze della comunicazione e Lingue e letterature moderne, ha raccontato realtà piccole e grandi attraverso i media contemporanei ed insegnato lingue in contesti accademici e non.
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