Il gioco del lavoro

Nonostante sia l’ossessione dell’essere umano, anche il lavoro è diventato un mero strumento di dominio, che non ci lascia nulla di concreto. Nella società della tecnica e della rincorsa alla suprema felicità, lavorare è un’attività di mera sopravvivenza attraverso cui l’individuo diventa consumatore; acquirente di beni e servizi che utilizzerà durante il suo risicato tempo libero; contraente di debiti dilazionati in rate, rette mensili, abbonamenti e ricariche.

E poi, ad avercelo un lavoro retribuito! Perché non è detto che lavorare sia sinonimo di un congruo stipendio, anche se il termine “congruo” si presta a moltissime interpretazioni. Tra chi ha troppo e chi ha poco in tasca, c’è nel mezzo il dispendio di energie e le ore messe a disposizione per un’attività alienante che impegna giorno e notte. Il cosiddetto smart working nell’epoca della perpetua connessione alla rete ha ingabbiato ancora di più il volenteroso individuo postmoderno, pronto a puntare solo su se stesso e a fare del suo progetto una “solida” attività imprenditoriale.

Così, l’individuo è ormai “progetto” che intraprende attraverso l’attività lavorativa un percorso di crescita e di evoluzione che a ben vedere è solo un accumulo di esperienze insonni, di cfu, di incarichi impressi su diplomi formato pdf.

Il mercato del lavoro è il luogo della schiavitù, la piazza virtuale in cui l’uomo si aggira come il lupo affamato che avvista la preda. Non solo uccide l’altro, ma mangia se stesso, attribuendosi un valore di scambio. L’ingegno mercificato ha logicamente una sua obsolescenza programmata. Il lavoratore va incontro all’usura come tutti i mezzi di produzione. Il burnout è il fine vita del mezzo-uomo. Ma in nome del lavoro si sacrifica tutto, in particolar modo la salute e il diritto alla vita. Chi muore di lavoro è un eroe.

Ma cosa produce oggi il lavoro? Il lavoro produce desideri di desideri, servizi che sono sfizi, merci che sono gadget. L’utilità del lavoro è rintracciabile ancora in coloro che producono beni di prima necessità, ma è pur sempre la sovrapproduzione a infestare il tutto, in quanto ogni crisi, oggi, è dettata dalle leggi dello spreco. Meno si consuma, meno si produce, più questo fenomeno viene chiamato crisi. Ma lo è davvero?

Non c’è lavoro a sufficienza perché non tutti possono consumare alla stessa maniera. Se ogni individuo potesse soddisfare pienamente i tanti desideri suscitati dal mercato, le risorse scarseggerebbero subito e la Terra imploderebbe. A ciò si affianca il lavoro intellettuale, che dovrebbe educare la società ai buoni sentimenti e al raggiungimento del “bene comune”. Tutto ciò in un mondo che getta l’individuo nella guerra per il dominio e per il profitto?

E il precario, il disoccupato e l’inoccupato? Sono gli esemplari più utili al mercato del lavoro attuale, in quanto spinti dal desiderio e attanagliati dal rimorso per essere considerati “scarti” della società, diventano individui manipolabili e pronti a soddisfare ogni richiesta.

E che il gioco abbia inizio!

(Copertina: fotografia da “Lost in the City” di Nicholas Sack)

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Martino Ciano

Amante della filosofia e della letteratura, autore. Laureato in Scienze storiche, giornalista e direttore responsabile della testata Digiesse News dell'emittente Radio Digiesse.
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