Su “Muse nascoste. La rivolta poetica delle donne” di Nicola Vacca

“Meglio scrivere un libro importante nel deserto / che diventare celebre per equivoco”, le taglienti e amare parole della poetessa Margherita Guidacci parlano così del destino di molte figure femminili del panorama della letteratura italiana e mondiale, che, pur avendo raggiunto elevate vette espressive di lirismo, sono state troppo spesso rubricate nel Poema di un “Inferno minore”, per utilizzare le parole della grande Claudia Ruggeri.

Ma “C'è modo e modo di sparire”, ci ricorda, d'altro canto, Nina Cassian e le poetesse di cui ci parla Nicola Vacca nel suo denso e agile saggio Muse Nascoste, (Galaad Edizioni, 2021), hanno saputo farlo in forme e stili sempre significativi e stupefacenti.

E fin dal titolo, questo viaggio nelle parole della poesia femminile, è in qualche modo, rivoluzionario.

Poiché risarcisce quelle muse proprio del ruolo mitico che era stato loro espropriato.

Finalmente, non solo, ispiratrici e ispiranti, ma, decisamente,  autonomamente poetanti.

D'altronde, tali erano originariamente le abitanti del parnaso.

Questo libro di Vacca sottolinea, dunque, l'affrancamento definitivo dal pur nobile stereotipo stilnovistico della donna fonte di ispirazione, per la riconquista dell'autonomia della sua natura poetica.

Non è forse un caso che Giorgia de Cousandier, l'unica poetessa, a sua volta ispiratrice di un poeta (Leonardo Sinisgalli), chiuda la rassegna.

Enormemente ricco e variegato il panorama di figure del libro che sa riempire i vuoti(se non proprio le voragini) mnemonici di una critica miope se non per i nomi meritatamente canonici di Emily Dickinson, Amelia Rosselli, Simone Weil, Cristina Campo, Marina Cvetaeva, Nelly Sachs con quelli delle loro sorelle minori (ma forse) solo per notorietà.

Ogni voce inequivocabilmente ha un proprio suono singolare e irripetibile. Tuttavia alcuni timbri ritornano potenti nei versi di quelle donne.

In primis la consapevolezza della nudità della condizione umana che parte,   primariamente, proprio dalla corporeità, fonte inesauribile e radice impastata della terra, come la voce della poesia di Nina Cassian che, come scrive Nicola Vacca “sta tutta nella carne ferita del nostro tempo”, quasi fosse una zaffatura medicamentosa.

La sua consapevolezza che gli impedimenti e gli inciampi, che in greco antico suona scandali (skandalon) sono anche e forse principalmente interiori tanto da scrivere: “Lasciatemi disporre le mie ossa / diverse da com'erano finora, / le mie ossa, questi fastidiosi ostacoli / che sbarrano la strada alla carne”.

Guardami sono nuda” le fa eco Antonia Pozzi aggiungendo “Vivo della poesia come le vene vivono del sangue”.

Ma non è una nudità fine a se stessa, l'alfa e l'omega di uno sguardo, il compiacimento o l'oltraggio di un pensiero ossessivo ma, al contrario, “Nuda per cominciare” come rivendica Sylvia Plath “come una pagina bianca”, foglio e foglia da riempire perché, con le parole di Nicola Vacca, “Il mestiere di vivere coincide con il mestiere di scrivere”.

La cifra ulteriore del femminile abita anche in un'altra nudità, la nuda franchezza della voce che spazza via ogni reticenza e sa indicare l'essenziale come i “Chiodi poetici di Ágota Kristóf  [che] feriscono, scorticano, pugnalano, squartano” come scrive l'autore.

Un esercizio costante di fuga dall'ipocrisia  che impone che le cose vengano chiamate per nome: “E' la notte del Dubbio sul capo / di Cattiva Speranza” scrive Nina Cassian “E' la notte in cui i fiumi tornano all'origine / e rientrano nella terra” per cui è la parola stessa a vacillare e rischiare di scomparire perché “Cani divorano il silenzio / e, inavvertitamente, la tua voce”.

Ma la fuga dall'ipocrisia fa rima necessariamente con rigore.

Così, infatti, chiosa Nicola Vacca a proposito della poesia dell'immensa Emily Dickinson: “Il suo rigore è assoluto ed è forte in lei il rispetto della parola dal suono asciutto che, scritta sulla pagina, riesce a fare breccia direttamente nel cuore del mondo”.

La parola esatta ma non nel senso tronfio della supponenza di una verità inesistente ma nel senso etimologico (exacta) della misura, del pesare con precisione.

Il verbo in questione, infatti, è proprio esigere, ovviamente primariamente da se stessi, esigere questa esattezza nella misura, nella ponderazione dei significati e dunque delle parole, loro significanti.

La parola esatta, dunque, buca la pagina (quella breccia nel cuore del mondo), quasi un taglio di Fontana, oggi si direbbe buca il video, altrimenti detto, travalica lo sguardo nella visione, va oltre, risalendo nelle radici o involandosi al di sopra della pagina.

Tuttavia questo non nega che la parola poetica resti, come scrive la critica Antonietta Grignani a proposito di Jolanda Insana, sempre “approssimativa e manchevole” e tuttavia “deve essere assunta piena e impura, dissonante ma di necessaria sostanza”.

Di più, addirittura corale anche se finanche internamente e interiormente dissonante  fino ad essere inquietante: “Parlo con la voce che sta dietro la voce” scrive la poetessa Alejandra Pizarnik “ed emetto i magici suoni della lamentatrice”  quasi come una Sibilla che non smettiamo mai di interrogare e il cui significato delle parole (ammesso ce ne sia uno e uno soltanto) si perde nel vento.

C'è, evidentemente, un suggeritore nel nostro profondo, quasi un ospite inquietante che si agita in quella prigione.

D'altronde la poesia non ha velleità creatrici, come scrive  Simone Weil: “Più che a modificarli, una poesia insegna a contemplare i pensieri”, rimandando alla figura greca di theoria, la contemplazione degli dèi disposti sull'Olimpo e quindi la contemplazione della conoscenza che essi rappresentavano, unione-fusione tra pensiero e poesia, il pensiero poetante, richiamando il manifesto poetico del grande Piero Bigonciari.

Alla fine è la parola” afferma Hilde Domin, in una frase speculare ad un'altra ben più famosa ed altrettanto vera anche se la risposta alla sua domanda sul perché dello scrivere rimane inevasa: “Non era qualcosa di previsto. Non doveva accadere” pur nella consapevolezza che “Non si vivono tutte le vite che si potrebbero vivere” e la vita rimane “Un cammino incerto” come il titolo di una raccolta di Margherita Guidacci che però vale la pena di essere vissuto solo nel dono e nell'accoglienzaanche se irraggiungibili: “Le mie mani non sono ancora vuote / ch'io possa alzarle in Te. Io che fallii nella stretta fallisco / ora nella rinunzia”.

La poesia, dunque, accanto ai convitati d'onore, celebrati nelle antologie e citati (talora a sproposito) come segni di interpunzione del discorso si è arricchita nel tempo di voci altrettanto profonde ma evanescenti perché soverchiate, per diverse sorti, dalle maggiori.

Quasi “Epitaffi scritti sull’aria” come direbbe Nelly Sachs.

Tuttavia essa ne ha bisogno come di quel tredicesimo invitato, fuori della lista d'onore e sostanzialmente dimenticato nella convocazione delle accademie. Questi sono i versi di Fernanda Romagnoli:” Io qui non mi trovo, Io fra voi / sto come il tredicesimo invitato, per cui viene aggiunto un panchetto / e mangia nel piatto scompagnato” e che in un'altra poesia, Carnevale, dà voce al suo struggente desiderio che, poi, è quello di ogni essere umano: “Il mio poco darei / per un unico verso che resti / testimonio di me, / un attimo posato sulla terra / - lieve - / come un coriandolo / di questi”.

(Nicola Vacca, Muse nascoste, Galaad edizioni, pagine 118 , €12,00)

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