Mahler e la macchinazione della voce

“L’accordo di settima diminuita è giusto e pieno di espressione all’inizio dell’opera 111. Il principio della tonalità e il suo dinamismo conferiscono all’accordo un peso specifico. Esso lo ha perduto per un processo storico che nessuno può capovolgere […] Le difficoltà proibitive dell’opera sono profondamente radicate nell’opera stessa. Il movimento storico del materiale si è volto contro l’opera stessa” (Thomas Mann, Doctor Faustus)

Si potrebbe sussurrare un assioma, oppure, forse meglio, balbettare un assioma. Balbettare un assioma, ma perché? A maggior ragione lo si potrebbe balbettare per far sì che tale assioma possa apparire, in qualche modo, che possa mostrarsi, apparire come evento e come apparenza. D’altra parte solo questo si può fare con l’evidenza: balbettarla, macchinarla, interpretarla, decodificarla, transcodificarla. Ma resta il fatto che vorremmo ribadire qualcosa: ribadire il già detto. Ribadirlo perché già detto, perché già balbettato, perché di fondo è quello che cerchiamo, si può dire solo ciò che è stato già detto, già chiacchierato: si può dire solo un ritornello. Noi vogliamo un ritornello per dare una base d’appoggio a qualcosa, una base d’appoggio che possa reggere di fronte all’abisso - cerchiamo una leva, non per sollevare il mondo, ma per tenerci in sospeso di fronte al terrore, per ancorar-ci nel mondo e guardare il Fuori. Eppure ci sembra importante ribadire un qualcosa sulla musica, ma perché? Un qualcosa sulla musica e sulla voce che si organizza nel linguaggio, sulla voce come ritornello, come il primo modo attraverso il quale l’uomo cerca una rassicurazione. Attraverso la voce facciamo luce, attraverso la voce siamo in grado di orientarci, di dare indicazioni, di guidare qualcuno, o di ingannarlo. Quale sarebbe il problema della musica? Thomas Mann dice che è il carattere dell’ambiguità, ma cosa vuol dire?

Volevamo proporre un assioma, volevamo balbettare un assioma, ma quale? Qualcosa sulla musica, qualcosa su Mahler, qualcosa su Mahler come fine della musica. Ma non sarebbe compreso, o meglio, sarebbe compreso, ma nessuno ci crederebbe: tutti continuerebbero ad ascoltarla. Ci si trova costretti a produrre assiomi di tipo diverso, a fare affermazioni che risultino massimamente evidenti. Qualcosa del tipo: non esiste nessuno sviluppo nella musica di Mahler. Questo è estremamente evidente, eccessivamente evidente, o forse no? Se non fosse così evidente sarebbe perché lo abbiamo balbettato, e per essere credibili, si insegna nelle Accademie, non bisogna balbettare. Ma lo abbiamo balbettato perché noi non vogliamo più saper parlare bene, non vogliamo più parlare come si parla, non vogliamo più dire le cose per come si devono dire, noi vogliamo parlare come potrebbero parlare i ragni, come potrebbero parlare i topi, come potrebbero parlare i lupi. Ma perché questo? Perché percepiamo qualcosa nel loro linguaggio. Forse un linguaggio silenziosamente camuffato in qualcosa di diverso? Un linguaggio precipitato verso una macchinazione fatale, verso la voce? O verso l’impercettibile? Verso un divenire-impercettibile? Ma se il linguaggio diventasse, se il linguaggio avesse un divenire, se si avviasse verso un divenire-animale, che cosa accadrebbe? Accadrebbe il molteplice: «In un divenire-animale si ha sempre a che fare con una muta, con una banda, con una popolazione, con un popolamento, insomma con una molteplicità»[1]. Ma perché una molteplicità e perché un divenire? Perché abbiamo bisogno dell’impossibile, perché il divenire è l’impossibile, perché nel divenire accade qualcosa che non può essere compreso, accade un’esplosione che apre ad una zona di indiscernibilità e produce un irraggiamento fatto di linee aberranti.

Quando Adorno parla della musica di Mahler utilizza un’immagine netta: «La frantumazione è il principio stesso della sua musica»[2], e poi parla di accordi che esplodono, parla di tagli, di innesti, parla di sezioni, come se stesse parlando di un corpo vivente e, d’altra parte, la fisiognomica è qualcosa che parte dal corpo, che parte da tratti fisici, che parte dalla carne. La composizione di Mahler è una composizione che vuole far esplodere e innervare un corpo che ormai risponde solo a stimolazioni violente, soprattutto, è il tentativo di trovare un modo per respirare ancora, per tentare un ultimo respiro, un estremo respiro nell’irrespirabile. Ecco perché Mahler procede per tagli, tagli di frammenti, tagli di frasi musicali, sezioni, esplosioni e cicatrici dove vengono cucite melodie e dove spesso si legano i suoi stessi in frammenti. Ma tutto questo non deve essere inteso come mero citazionismo, non è mai mero citazionismo, il citazionismo prevede uno sviluppo, e noi lo abbiamo già detto: non esiste nessuno sviluppo nella sua musica, in Mahler c’è solo un campo di immanenza, un precipitato interno che travolge qualsiasi sviluppo armonico. Si tratta di una proliferazione non progressiva, fatta di motivetti intensivi, accumulazione e poi implosione di piccole note che permettono di produrre rapporti tensivi estremamente complessi che si muovono su rapporti di quinta. Mai come nella musica di Mahler la struttura degli accordi cede il posto al movimento accelerato delle variazioni che trascinano tutto in vortici di dissoluzione sul posto, poiché non vanno da nessuna parte, poiché non possono andare da nessuna parte, ed allora implodono.

Abbiamo balbettato del ritornello e della voce, di come attraverso il ritornello si configuri il tentativo di rassicurar-si di fronte all’inquietante, di fronte all’abisso. Ma se il ritornello è la filastrocca ritmica che deve circoscrivere uno spazio di sicurezza, si deve aggiungere una piccola precisazione: si deve aggiungere che il ritornello accade sempre all’interno del piano musicale. Non è questa ancora una volta un’evidenza? Ma allora si tratta di intendere la musica come una fuga che non si muove dal suo campo di immanenza, una fuga che non è via di fuga da un apparato di cattura, ma linea di fuga che si manifesta subito, e principalmente, come linea di abolizione e di morte, linea che si ripiega sul proprio abisso. Allora da una parte la musica sarà concatenamento e desiderio, sarà linea di creazione intesa come via di fuga che produce nuovi incontri e che crea una nuova combinatoria, ma, nello stesso tempo, sarà anche una linea di morte e di abolizione, una via di fuga verso il proprio abisso: carattere ambiguo della musica. La musica e la sua ambiguità, la musica è la sua ambiguità? Non è forse questo un dei punti fondamentali del celebre romanzo di Thomas Mann a cui avevamo già fatto riferimento? Allora non è un caso che in uno dei dialoghi più importanti sulla riflessione musicale si dica ad un certo punto: «La musica è l’ambiguità elevata a sistema»[3].

Il carattere di ambiguità della musica che in Mahler emerge nel modo più chiaro si manifesta, con estrema evidenza, nel fatto che da una parte è un principio di composizione e di concatenamento, ma, nello stesso tempo, sullo stesso circuito di composizione e di desiderio, germogliano delle linee di abolizione e di morte che trascinano la composizione verso la catastrofe, verso l’esplosione e Mahler coglie questa potenza della musica e la mette in scena. Ora, soltanto grazie al ritornello si ha qualcosa di stabilizzante nell’inesorabile fuga verso l’abisso che appartiene all’evento musicale stesso ed alla sua evanescenza. Un ritornello che cerca, attraverso la parola, di arginare la potenza delle incandescenti sequenze molecolari che attraversano la composizione, sequenze incandescenti fatte di linee di abolizione e sciami di morti [Kindertotenlieder], quindi divenire-minori, ma che esprimono la massima potenza: «La musica è attraversata da tutte le minoranze e tuttavia compone una potenza immensa»[4].

Quando si passa dal pianto, al verso, e poi al linguaggio è perché il linguaggio permette una codifica ed una codificazione rassicurante (come appunto il ritornello), pertanto, il linguaggio, inteso come congelamento musicale, come stabilizzazione epistemica, costruisce degli appigli, permette dai ganci di sicurezza, permette una viaggio morbido ed una relazione comprensibile con il mondo. Ma ogni relazione linguistica con il mondo è una relazione fatta di tagli, fatta di posizionamenti, fatta di sintassi, una relazione ordinata e sorretta da un principio funzionale che è quello del codice. Allora il primo problema della musica rispetto al linguaggio inteso come fonologia, al linguaggio che si distribuisce su uno spazio discreto e su un piano di organizzazione, sarà quello di macchinare la voce. Ma dove avviene tale macchinazione? Così come Mahler supera il sistema tonale attraverso una linea di fuga che porta all’implosione il sistema tonale stesso, non superandolo con un altro sistema, ma piegandosi nel sistema tonale, accartocciando-si dentro al sistema tonale, così, allo stesso modo, Deleuze e Guattari parlano della macchinazione della voce come di un tentativo per superare l’organizzazione del linguaggio, non negando il linguaggio, ma attraverso un principio di esplosione che si installa dentro il linguaggio. Si tratta di far saltare il linguaggio attraverso il linguaggio, si tratta di far danzare l’anatomia, come diceva Antonin Artaud, decolonizzare la colonizzazione della lingua attraverso la composizione di una voce intensiva (e non organizzata e accademica), facendo sciamare linee di fuga e di morte, senza per questo imparare a parlare, perché imparare a parlare è il dramma della musica, e della vita. Ecco perché i processi imitativi sono tagliati fuori e non hanno nulla a che fare con Mahler, l’imitazione ha sempre a che fare con una struttura organizzata e molare, mentre la musica è ambiguità. La musica non può mai organizzarsi del tutto senza che qualcosa scivoli via dal suo piano inclinato: la musica di Mahler è musica che scivola via, non attraverso un processo imitativo o auto-citazionistico, ma attraverso la macchinazione, ma macchinazione di cosa? Ovviamente non della voce, almeno per quanto riguarda Mahler, ma macchinazione del sistema tonale, macchinare il sistema tonale, facendolo diventare una macchina da guerra. Un sistema sì, ma fatto di esplosioni, di incursioni, di precipitazioni, con i suoi morti, con i suoi feriti, con i suoi sanguinamenti, con i suoi cori e le grida di terrore. Ed ecco perché Mahler esaurisce e porta a compimento la parabola del sistema tonale: dopo Mahler non può esserci più alcuna musica tonale.

Mahler non ha mai detto, almeno attraverso le parole, che la sua era la composizione di un Requiem, Mahler non lo avrebbe mai detto, non avrebbe mai voluto dirlo, ma probabilmente ne era ben consapevole. Non lo ha mai detto, ma lo ha fatto risuonare ed è questo il suo Requiem mai composto eppure sempre presente, in ogni opera, in ogni accordo. Ma dopo Mahler, la musica non ha fatto altro che strutturarsi come piano di organizzazione, come piano di divertimento, o peggio ancora, come oblio. La musica ha fatto finta di non sentire, agendo in malafede, come se Mahler non ci fosse mai stato, come se quella guerra non ci fosse mai stata e non fosse mai stata combattuta. Oggi la musica non fa che risuonare, non è altro che una forma di risonanza ed è totalmente sorda verso se stessa. Oppure, ancora peggio, la musica si è imposta ed impostata come voce non macchinata, come un procedimento imitativo ed inerziale, come un fenomeno di regressione: musica come metrica, musica come distrazione. Non ha più saputo dare alla voce una macchinazione capace di fare della voce una voce intensiva, ma si è divertita ed auto-esaltata nell’imitazione del linguaggio, nell’imitazione dell’organizzazione del linguaggio e nella sua edulcorazione trionfante, spettacolarizzata e mediocre.


Note

[1] G. Deleuze e F. Guattari, Millepiani, a cura di M. Carboni, Castelvecchi, Roma 2014, p. 298.

[2] T. W. Adorno, Mahler. Una fisiognomica musicale, a cura di E. Napolitano, Einaudi, Torino 2017, p. 37.

[3] T. Mann, Doctor Faustus, trad. it. di E. Pocar, Mondadori, Milano 2004, p. 68.

[4] G. Deleuze e F. Guattari, Millepiani, op. cit., p. 298.

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Marco Di Napoli

Laureato in Lettere e Filologia Moderna, studioso di strutturalismo e post-strutturalismo, si dedica da anni allo studio della filosofia contemporanea.
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