La falsa dialettica o anche note sull’esternalità

Il “diritto all’aria pura” significa la perdita dell’aria pura come bene naturale, il suo passaggio allo stato di merce e la sua disuguale ridistribuzione sociale. (J. Baudrillard)1

In economia con il termine esternalità si definiscono gli svantaggi che l’attività di un soggetto operante arreca ad altri soggetti e per i quali il soggetto operante non paga o riceve profitto; si tratta molto più comunemente di quei casi in cui l’azione di un soggetto agente ha ripercussioni su altri soggetti, ripercussioni il più delle volte esterne al mercato. Il concetto, in linea di principio, può essere di due tipi, si parla di esternalità negative quando ad esempio il proprietario di una attività di trasporti congestiona parte di un tratto di strada pubblica in seguito all’immissione o al ricovero dei mezzi o quando il possidente di un pub o di un night club produce inquinamento acustico, disturbo della quiete e consequenziale svalutazione dell’area su piano immobiliare. Sono, invece, esternalità positive quelle relative alla realizzazione di una nuova via metropolitana che determina un maggiore accentramento della zona a cui segue un aumento del valore di mercato per gli immobili presenti. L’esternalità si costituisce a partire da un concetto fondamentale che è quello di struttura, quale congiuntura di elementi che ordinano e costituiscono un reticolato o una composizione non in piano; quest’ultimo aspetto non è quasi mai contemplato, e, pertanto, si finisce con il disporre le scelte su di un piano cartesiano, in sé dualista e a-strutturale, bilanciato sul rapporto contrastivo tra politiche pubbliche (lo stato) e pratiche sociali (i privati). La presenza di una dimensione strutturale merita invece di essere sottolineata in quanto rappresenta un punto imprescindibile per una ri-codificazione delle strategie di potere in termini di organizzazione spaziale. L’eternalità ha il limite di ricondurre inequivocabilmente le dinamiche di potere in seno ad un regime di segni costituito su una assiomatica dualista, infatti, è nell’ottica di un discorso dualista che emergono altri modi per circoscrivere l’esternalità; non a caso l’esternalità negativa è detta diseconomia esterna mentre la positiva economia esterna, nominazione questa che marca il dualismo tra ciò che determina disequilibri e ciò che all’opposto li mantiene. Inoltre, una lettura del problema sotto l’impronta di un’ottica dualista rievoca la vecchia e atavica faida tra i soggetti privati e l’ordine pubblico, tra l’interesse del singolo e l’interesse generale e dove, il governo del territorio, attraverso le forme della pianificazione spaziale, dovrebbe costruire le forme della regolamentazione; il compito dello stato allora sarebbe quello di ottemperare a problemi relativi ad una diseconomia esterna.

Le esternalità di cui si discute da svariati anni a questa parte sono sempre e solo esternalità negative, in quanto di ciò che è positivo non si parla mai poiché il bello come categoria estetica di bello, quale bello di per sé2, non può trovare posto in un sistema paradigmatico di tipo postmoderno.  Le varie forme d’inquinamento, ad esempio, sono tra le discorsività dominanti nel panorama sociale in termini di esternalità negative, esternalità che concorrono a forgiare quella che socialmente è stata denominata da Garrett Hardin «la tragedia dei beni comuni»3, cioè dell’aria, dell’acqua, delle strade ecc. Negli ultimi tempi è subentrata una categoria che ha contribuito a decentrare il falso dualismo e ha in buona parte smascherato la verità di una falsa dialettica tra politiche pubbliche e pratiche sociali. Il concetto di bene comune, di cui da qualche tempo si parla, ha dislocato il discorso e ha genealogicamente tridimensionalizzato il piano portando in superfice una verità storica che vede nell’Europa moderna le teorie della proprietà e le teorie della sovranità come figlie di un medesimo sviluppo: «la sovranità statuale e la proprietà privata hanno struttura identica, quello dell’esclusione e dell’arbitrio sovrano […] ecco perché […] lo stato presiede alla privatizzazione dei beni comuni adoperandosi per ampliare la sfera della proprietà privata»4.

L’apertura verso un terzo spazio non risolve il problema ma permette di problematizzare la questione disvelando il dualismo in cui siamo imbrigliati. Se disgiungiamo i beni comuni dal dominio delle politiche pubbliche irrimediabilmente personifichiamo una terza condizione, del tutto in sé scollegata sia da un paradigma mercantile di tipo individuale o corporativo sia da uno autoritario di tipo statale. Il tentativo di codifica5 di una categoria come quella dei beni comuni è stata posta in esame dalla Commissione Rodotà con il fine di creare un terzo polo (proprietà pubblica, proprietà privata, proprietà comune – rimodulazione dell’art. 42 Cost.) capace di sottrarsi alla logica della proprietà per mettere al centro una dimensione collettiva di fruizione diretta, beni, questi, fuori dal commercio e che valgono per il loro valore d’uso e di scambio. Il tema è particolarmente articolato e a tutt’oggi irretito nelle diverse posizioni dei suoi teorici (si precisa che non è certo questa la sede per sviscerarne contraddizioni e differenze). Ciò che interessa è la presa di posizione, e cioè il tentativo della politica pubblica, di rinsaldare ad ogni costo l’antico patto con la collettività che dalla sua pretende diritti non certo inerenti ad una rimodulazione del concetto di proprietà, ma di tutela dell’ambiente e del territorio: il dualismo ci va bene ma a patto che sia un dualismo dialettico. Il tentativo di risanamento di un dispositivo logico-dialettico è impossibile in quanto è logicamente irrecuperabile una filosofia della riconciliazione in rapporto a dinamiche sociali basate su capitalismo finanziario e dimensione postmoderna delle pratiche di sapere. Nulla di tutto questo sembra essere importante, in quanto ciò che veramente ha un senso per il collettivo è il tentativo di voler recuperare tutta una serialità di stampo tardoromantico, a suo dire identitaria e incentrata sul concetto di ambiente e di paesaggio6, come se recuperando questo recuperassimo una realtà al di là di ogni dimensione sovrastrutturale. Lo snodo è più che chiaro, ad una trasversalità diretta tra politiche pubbliche e pratiche sociali si annette una trasversalità altrettanto diretta tra politiche pubbliche e politiche ambientali, che in termini di mercato non sono meno competitive delle precedenti e dove attraverso l’ausilio della tecnica si dispone una convergenza delle assi che oggettiva un dispositivo di stampo perequativo tra i vari istituti. Non si tratta di smette di acquistare automobili, ma di acquistare automobili a basso consumo, non si tratta quindi di eliminare un certo modo di fare industria, ma di assorbirla in rapporto a precisi standard sulle emissioni o in rapporto al limite delle emissioni massime consentite. Si tratta di costruire permessi d’inquinamento in sé negoziabili in relazione a precisi standard tecnici, si tratta di organizzare tutta una serie di forme di sussidio per le industrie a basso consumo, sussidi per la ristrutturazione immobiliare previa efficienza energetica, percorsi che alimentano un nuovo tipo di mercato green per città commerciali in sé urbanisticamente deindicizzate e per nulla omogenee sotto il profilo urbanistico7. Non si tratta di fermare le merci e di tornare alla natura, ma di promuovere la vendita simbolica della natura attraverso una nuova filosofia di oggetti e gadget. Così come negli anni ottanta al centro del discorso estetico e di produzione mercanteggiava la plastica, in senso morale o se vogliamo extramorale, oggi mercanteggia la natura.

Nel sistema di regolazione e costruzione del mercato lo stato ri-disegna – nel senso di disegnare ancora e ancora nel medesimo e sul medesimo cerchio – il ruolo sia di chi produce le esternalità sia di chi le subisce (non essendo mai ente neutrale tra le parti ma co-organizzatore delle stesse in termini di codificazione dei flussi di potere). Istituti che apparentemente si negano all’opposto si rispondono in termini di sostenibilità dispiegando un dispositivo catalizzatore, una macchina significante dove il segno rinvia al segno all’infinito e dove «il segno salta da un centro all’altro spostando continuamente il centro»8 che «al tempo stesso non cessa di riferirsi ad esso»9, si tratta «di un regime di universale impostura, ad un tempo, nei salti e nei cerchi regolati, nelle regolamentazioni delle interpretazioni del divinatore, nella pubblicità del centro viseificato, nel trattamento della linea di fuga»10.


Note

1 J. Baudrillard, La società dei Consumi, Il Mulino, Bologna, 1976, p. 51.

2 I. Kant, Critica del Giudizio, trad. Alfredo Gargiulo, Laterza, Bari, 2005.

3 G. Hardin, The Tragedy of the Commons, Science, n. 162, 1968.

4 U. Mattei, Beni comuni, Un manifesto, Laterza, Bari, 2011, p. 10.

5 Nella Costituzione delle Repubblica del I gennaio 1948 non troviamo l’espressione «bene comune» anche se ci sono termini che ne richiamano l’essenza; «interesse delle collettività» (art.32), «interesse generale» (artt. 35, 42, 43), «pubblico interesse» (art.42). Per la costituzione italiana la proprietà si dispone a partire da quanto espresso dall’art. 42, pertanto essa è pubblica o privata, quest’ultima a sua volta sotto il profilo civile è divisa in tre categorie: demanio, patrimonio disponibile e patrimonio indisponibile.

6 S. Settis, Paesaggio Costituzione Cemento. La battaglia dell’ambiente contro il degrado civile, Einaudi Editore, Torino, 2019, cap. III. Cultura ed Etica della Tutela.

7 P. S. Richter, Diritto Urbanistico. Manuale Breve.Sesta Edizione, Giuffré Francis Lefebvre, Milano, 2020, p. 20 «Più precisamente secondo il d.m. n. 1444/ 1968 le zone territoriali omogenee dovrebbero essere o residenziali, o destinate a “insediamenti per impianti industriali o ad essi assimilati” (tra cui sembra debbano farsi rientrare gli “insediamenti di carattere commerciale e direzionale” : art. 5, n. 2 d.m. cit.), o “destinate ad usi agricoli", o infine, “destinate ad attrezzature ed impianti di interesse generale”. Secondo l’art.23-ter T.U.E., recentemente introdotto dal d.l. Sblocca Italia, la possibile articolazione delle varie categoria funzionali è invece la seguente: “ a) residenziale; a-bis) turistico ricettivo; b) produttiva e direzionale; c) commerciale; d) rurale”. L’elencazione e particolarmente importante perché, “salva diversa previsione da parte delle leggi regionali e degli strumenti urbanistici comunali, il mutamento della destinazione d’uso all’interno della stessa categoria funzionale è sempre consentito” (co.2, art. 23-ter, cit.). ».

8 G. Deleuse, F. Guattari, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, a cura di Paolo Vignola, Orthotes , Napoli-Salerno, 2017, p. 182.

9Ivi.

10Ivi.